Storia
di una storia
Capitolo
1
La
pioggia dei ricordi
Stava
sopraggiungendo il temporale, pensava. Il gran caldo aveva fatto bollire il
pentolone della pianura; il nero e il bruno delle macchie di vegetazione
sostenevano un cielo di lingue sinistramente luminose, più sopra,
retroilluminate, striature gonfie di pioggia, scure anch'esse, ma quasi
trasparenti.
Marco
aspettava quella forza idraulica purificatrice, con una punta d'impazienza e di
speranza: forse avrebbe lavato anche dentro, i ricordi recenti e infestanti, ai
quali anche aveva tentato di dire “Prego, accomodatevi”, in un tentativo
estremo. Se non era possibile scacciarli come mosche fastidiose, tanto valeva
far loro buon viso...
Era
una storia già vista e già sentita. Un uomo, una donna...Marco e Anna... e poi
non più una donna e neppure un uomo, perché - separati - valevano molto meno.
Sapevano entrambi che si stavano pensando, a distanza, del resto lo facevano
anche prima, che andava bene. Adesso che non potevano vedersi si pensavano
ugualmente. Non era cambiato nulla - dentro - era cambiato proprio tutto
intorno.
Ci
sono due dimensioni possibili delle cose che ci è dato vivere a questo mondo:
una quella materiale, concreta e sociale, in cui dici “buon giorno” e “
buona sera”, senti caldo, la fame e la sete, ti presenti al mattino al lavoro,
“fai benzina” alla macchina e tieni la contabilità del mese - tutte cose
maledettamente “vere”, apparentemente, e poi un'altra, in cui tutto ciò
assume una debolezza costituzionale, una precarietà progressiva al niente, è
quella dimensione interiore, senza tempo e senza spazio, dei pensieri da
clessidra, delle sensazioni prismatiche, che si riflettono dando luogo a
immagini sovrapposte, indecifrabili, persistenti, appena abbiamo la solitudine
per potercisi abbandonare.
Lui
era da tempo convinto che la realtà vera fosse la seconda per la presenza della
continuità e dell'intensità che anima i sentimenti. È' la dimensione che
trascende anche gli eventi scatenanti, e poco importa che siano favorevoli o
meno, ancora in atto o seppelliti dal tempo. In questa dimensione sicuramente
non era successo niente, anche se quello era il mondo delle verità capovolte,
dove la parola sicurezza era imprudente pronunciarla, perché un altro elemento
che amava era quello della vitale variabilità, tanto tutto quanto risultava
sganciato da punti di riferimento, confini, regole, a volte così opprimenti nel
mondo della prima dimensione.
Lui
era arrivato in quel territorio in cui il rapporto di causa - dal mondo concreto
- ed effetto - in quello interiore
- si sfilacciava, interrompendo i contatti. Era ormai addentrato in un mondo
separato dalla sofferenza, dalle costrizioni che avevano schiacciato la
possibilità concreta di disporre del suo amore, là sapeva che nessuno sarebbe
arrivato e nessuno avrebbe rubato, ridotto o avrebbe rivendicato
l'appropriazione indebita di quella donna, anche perché - sorrideva - là non
ci sono proprietà, padroni e non serve alzarsi di notte per spostare i cippi di
confine.
L'escamotage
per sopportare la contingenza funzionava sorprendentemente - almeno fino a quel
momento. In realtà era solo ridotta la capacità dello sconforto d'impadronirsi
di lui, lo sapeva.
Perciò
temeva di riavvicinare il pensiero di lei, come l'osservatore troppo vicino
all'animale di cui si teme una reazione improvvisa, e manteneva una distanza di
sicurezza, panoramica.
Era
però difficile non abbandonarsi a quelle membra sciolte che lo circuivano e lo
accarezzavano da farlo sentire un pupazzo di peluche, piacevolmente un oggetto
inanimato. Gli piaceva quel “te vui ben” che lei
pronunciava in continuazione, con il leggero imbarazzo per la banalità e la
ripetizione, che le veniva spontaneo, da accorgersene quando ormai aveva già
superato la soglia delle labbra. Era di una bellezza che lui trovava tenera, al
tatto, nell’avvertire la sua presenza, nell’amarla fisicamente, non nel
vederla con gli occhi della prima volta che l’aveva conosciuta. Non lo aveva
nascosto e di questo lei non ne faceva pesare la mancanza, apparentemente, ma si
illuminava quando lui le indicava un suo particolare fisico che gli piaceva.
Questo
poterle dire anche il contenuto delle pieghe dei pensieri - delle quali, di
solito, ci si libera nel discorso come delle briciole scuotendo la tovaglia - gli dava un gran senso di sollievo, la misura nella quale
veniva accettato ed anche una punta di piacevole trasgressione, di un piccolo
sadismo sensuale. In altre occasioni, con altre donne ciò sarebbe risultato
motivo di raffreddamento, di ritiro improvviso dell’espansività e di
quell’aria leggera che riempie la sfera di due amanti. Con lei no. Molte volte
aveva notato come anche le compagne che apparivano più lucide e adulte,
nell’intimità risultavano fortemente suscettibili per molto meno,
femmininamente capricciose, imprevedibili al punto che si era rassegnato a
considerarli dei comportamenti tipici della specie, in accordo con quella lunga
teoria di luoghi comuni, barzellette e aneddoti, che anche se risultavano di
qualche fondatezza nella sua esperienza, lo infastidivano appena li sentiva
accennare.
Con
lei no. Le piaceva molto questo suo modo di prendersi solo ciò che c’era,
senza pretendere quanto non veniva spontaneamente. Solo a volte, all’inizio,
quando desiderava essere baciata, si irrigidiva in atteggiamento di attesa per
non chiederlo, e lui rimaneva perplesso nell’avvertire quel filtro stranamente
vischioso, che non faceva scivolare le carezze come al solito o nel vedere
incespicare i suoi discorsi nelle domandine secche di lei : “Ah
sì?”. Poi ne risero scoprendo che avevano tempi completamente diversi:
freddino lui, appena la incontrava, e molto più lanciata lei. Da quella volta
non successe più e lei nell’attesa si dedicava a dei sorrisi comprensivi o a
delle occhiate intense alle sue labbra accompagnate dal ricorrente:
“Ciao, boca bea!” o, autoironicamente sulla sua insistenza di
avvicinarle le labbra, adoperava un tono che cercava di blandire il piccolo
fastidio di lui, sapendo di non rispettarne i tempi più lunghi.